La scuola e gli operatori

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La scuola è un luogo di relazioni essenziale e rappresenta per le persone una delle prime opportunità di costruire i significati del vivere nella società tra altri esseri umani. È un luogo dove ci si confronta con gli altri, dove si è visti e ci si sente visti, dove si sperimenta la diversità e l’uguaglianza, dove si ha la possibilità di conoscere e di essere riconosciuti.

 

Se si considera la persona con deficit come un’entità inconsueta e sconosciuta che non essendo famigliare può risultare minacciosa, il meccanismo di reazione protettivo e rassicurante consiste nell’abbinare quella persona a categorie di significato convenzionalmente riconosciuti, a collocarla in una classificazione nota che annulli la minaccia del non conosciuto.

 

La conseguenza è l’identificazione dell’individuo con la condizione di handicap: la persona ha così un’etichetta che la classifica dando ordine e senso alla sua vita.

 

Il significato convenzionalmente conosciuto dell’handicap ha un valore negativo connotato da debolezza e insufficienza.

 

Il risultato è che nella condizione disabile, oltre all’attribuzione valoriale negativa, è visibile l’handicap e la persona è invisibile.

 

La classe scolastica può essere un esempio di luogo affollato dove chi è diverso si sente solo perché è invisibile e questa condizione di invisibilità è la stessa che anche gli altri operatori e gli stessi genitori rischiano di determinare, polarizzati dalla forza del deficit, perdendo di vista le potenzialità delle parti sane e, in sostanza, la totalità della persona.

 

Pensando invece all’esperienza scolastica come l’opportunità di partecipare ad un progetto comune dove si fa esperienza degli altri condividendo responsabilità e successi, dove l’integrazione è vissuta come un’occasione di coevoluzione e crescita per tutti e dove l’agire educativo incoraggia l’accrescimento delle competenze emotive e relazionali, la creazione di un contesto formativo che accoglie le esigenze del disabile ed è vissuto da tutti come motivante e arricchente può rappresentare la condizione ideale per valorizzare la diversità e permettere un tipo di conoscenza che parte dal riconoscere le differenze e non le uguaglianze.

 

In contesti formativi che riguardano ragazzi e ragazze dall’adolescenza in poi e che hanno la finalità di prepararli all’inserimento lavorativo, quando è possibile, le tematiche dell’accrescimento delle competenze sociali e dell’autonomia si legano alla possibilità di sviluppare una reale emancipazione da parte del soggetto con handicap che diventa adulto.

 

Il successo delle future esperienze lavorative dipende in larga misura dalla disponibilità della famiglia a vivere la condizione disabile in modo non rigido e precludente qualsiasi possibilità di emancipazione e sviluppo, che risulterebbe in queste condizioni paradossalmente destabilizzante per l’equilibrio stesso della famiglia.

 

Gli operatori che collaborano in questi ambienti hanno la responsabilità di tenere conto di questa eventualità e lavorare supportando la famiglia in modo che il figlio riesca a vivere in pienezza queste opportunità quando le condizioni lo permettono. Come spesso succede dopo la diagnosi di una malattia rara le persone si trovano nella condizione di non poter contare su un’equipe sanitaria strutturata che sia composta almeno dalle più importanti figure professionali coinvolte nella cura della patologia.

 

Per la sindrome di Prader Willi la situazione è analoga e dalle storie delle famiglie emerge quanta fatica e quante difficoltà i genitori hanno dovuto sostenere e continuano ad affrontare per riuscire a curare adeguatamente i propri figli. Considerando che la complessità della patologia coinvolge diverse figure sanitarie è facilmente intuibile la complessità di una presa in carico che ha necessità diverse in base anche all’età dei soggetti e che manca attualmente di protocolli definiti.

 

Esistono sulla carta centri di riferimento, sparsi per la penisola, che a volte fanno capo però ad un unico specialista, quasi sempre un pediatra o un endocrinologo. Frequente è il fenomeno dello shopping terapeutico per cui molte famiglie si spostano da una regione all’altra per interpellare lo specialista di turno che potrebbe proporre le soluzioni più adeguate ai bisogni contingenti. Esistono tuttavia realtà più strutturate e in questi ultimi anni sta prendendo sempre più forza l’idea che la costruzione di una rete operativa, dove circolino competenze, saperi ed esperienze da condividere, e dove siano strutturati servizi integrati e coordinati, sia la risposta più efficace ed efficiente ai bisogni e alle richieste dei malati e delle loro famiglie.

 

Anche nell’ambito delle malattie rare da alcuni anni si sta cercando di pianificare le cosiddette reti sanitarie Hub&Spoke dove equipe multidisciplinari potranno pianificare progetti di presa in carico costruiti su misura. In quest’ottica, che si può considerare sistemica come impostazione e finalità, è stata auspicata la costituzione del centro regionale di riferimento per la patologia con l’idea di estendere la collaborazione ad altre realtà, dalla scuola alla rete sociale sul territorio. È un’impresa complicatissima e ancora lontana dalla realizzazione.

 

In generale nell’ambito sanitario, anche dove sono presenti équipe che prevedono la sua figura, come sottolinea Sorrentino (2008), lo psicologo non ha un ruolo ancora ben definito nelle strutture riabilitative ed è spesso relegato ad attività mirate al completamento della diagnosi o al counseling dei genitori escludendo una presa in carico complessiva della famiglia che comprenda, ad esempio, anche i fratelli.

 

Lo psicoterapeuta relazionale può avere invece un ruolo di sostegno e preventivo esteso a tutti i membri famigliari e, contemporaneamente, essere utile agli altri operatori. Infatti “come esperto delle relazioni umane egli può essere utile agli stessi colleghi diventando stimolo all’autoriflessione circa gli effetti comunicativi del proprio operato e, considerando ogni comportamento come un messaggio, può intuire i problemi che si generano nei rapporti e indurre una riflessione collegiale che promuova le soluzioni”.

 

Comunque, anche se non risulta facile realizzare questa “mission”, tali collaborazioni permettono allo psicologo di interfacciarsi in altri contesti con più competenza e più informazioni.

 

E i contesti più importanti sono appunto le strutture scolastiche e quelle degli ambienti lavorativi per i più grandi.

 

Proprio per realizzare la rete delle competenze e delle esperienze condivise le famiglie dell’Associazione Prader-Willi sono sempre sollecitato a mettere in contatto la psicologa referente con i diversi operatori che si occupano dei loro figli e salvo poche eccezioni tutti hanno sinora accettato di collaborare consolidando e accrescendo di significato questa relazione nel tempo. Anche in questo campo le prassi sono molteplici: con insegnanti delle scuole ed educatori di comunità organizziamo incontri periodici di formazione ed aggiornamento su singoli casi.

 

Le classi scolastiche sono caratterizzate da molteplici diversità, legate alle differenze nei modi di apprendere, ai livelli di apprendimento raggiunti, alle specifiche inclinazioni…, ma anche a condizioni particolari che possono essere causa di difficoltà nell’apprendimento, oppure a particolari stati emotivi e affettivi.

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Come costruire la relazione educativa?

 

Osservare/Conoscere

l’alunno

i compagni

i docenti

la reciprocità dell’interazione (tra alunni, alunno/docente)

 

Progettare proposte formative

agendo in modo flessibile e creativo adeguando gli ambienti e le prassi (blend learning) nel rispetto dei diversi stili cognitivi (personalizzare/ individualizzare)

 

Condividere

esperienze didattiche ed educative e metodologie (didattica laboratoriale peer tutoring cooperative learning) attraverso la collaborazione e la condivisione

 

Favorire percorsi di autoconsapevolezza e costruzione del percorso educativo

ascoltare le richieste

ascoltare le proposte

ascoltare le necessità